Themes: Abandonment, Cruel and unfair world, Realize one’s own worth, Psychology, Dreams, Self-doubt | Self-Acceptance | Self-Worth

Personal Notes

I resonated a lot with Tsukuru. Particularly his self-doubt, impression of not being liked, and impression of being colorless (without a strong, memorable personality).

I loved that, despite him thinking so lowly of himself, his old friends then told him that he was the one keeping the group together, the one they looked up to, or thought as most attractive, and Kuro told him she was madly in love with him. Reading this was quite encouraging, as I can see others probably also looking up to me, even though I do think lowly of myself.

Being is Tsukuru’s mind, in a way, can allow one to see one’s own self-doubting patterns from an external perspective, which surely can be helpful in recognizing them and seeing how mistaken they can be. It also allows to see and accept, that one doesn’t necessarily need to have an explosive, charismatic personality in order to be appreciated and of service to others.

This book, also somehow helped to diminish some concerns and worries I have about me aging (without achieving an idealistic full potential). Tsukuru is 36, and despite all, I see him as a cool guy, even though he hasn’t achieved anything outstanding. Thus, reading about him frees me from my violently self-enforced aspiration of doing something “great”. I can continue living my life, maybe not even find “the one”, by age 36, and still be “a cool guy”.

Other than all this, as with all of Murakami’s books, I got this beautiful, hazy, dreamy vibes that I really love, and I felt quite sad once the book finished.

Quotes I liked

Quanto a Kuro, non si può dire che fosse molto più bella della media. Aveva però un’espressione vivace, ed era davvero simpatica. Era alta e robusta, e già a sedici anni aveva un bel seno prosperoso, un carattere forte e indipendente, la parlan tina sciolta e un cervello veloce quanto la sua lingua. A scuola eccelleva nelle materie letterarie, ma in matematica e in scien ze era una frana. Suo padre era commercialista, con uno studio in centro, ma sembrava alquanto improbabile che lei, un gior no, potesse lavorare con lui. Spesso Tsukuru l’aiutava a fare i compiti di matematica. Kuro aveva la battuta pronta, e col suo umorismo sottile rendeva le conversazioni divertenti e frizzanti. Era anche una lettrice vorace e aveva sempre un libro in mano.

Shiro e Kuro erano compagne di classe fin dalle medie, e si conoscevano bene già prima di mettere su il gruppo con gli al tri tre ragazzi. Vederle una accanto all’altra era qualcosa che lasciava senza fiato. L’introversa bella e un po’ artista, e l’estro versa intelligente e ironica. Un’accoppiata unica e affascinante. A pensarci bene, in quel gruppo, solo Tazaki Tsukuru sem

brava privo di una personalità dalle caratteristiche spiccate. Non nutriva un eccessivo interesse per lo studio, ma seguiva le lezioni con attenzione e tanto gli bastava per fare i compiti ed essere preparato. Era un’abitudine che aveva acquisito fin da piccolo, insieme a quella di lavarsi le mani prima dei pasti e i denti subito dopo, Motivo per cui a scuola, pur non distinguen dosi, se la cavava e aveva sempre la sufficienza in ogni materia.


Quindi, pur essendo privo di caratteristiche particolari, pur tendendo a confondersi nella massa, pensava di avere qualche cosa almeno una cosa! - che lo distingueva dalle persone in torno a lui, di non essere del tutto nella norma. Un’idea di sé contraddittoria che in molte occasioni aveva portato nella sua vita, da quando frequentava le elementari fino ad oggi che ave va trentasei anni, imbarazzo e scompiglio. In maniera ora lie ve, ora profonda.

A volte Tsukuru si domandava per quale misteriosa ragione fosse stato accolto nel gruppo dei suoi amici. Era proprio ve ro che gli altri quattro avevano bisogno di lui? Oppure stava no meglio, si sentivano piú a loro agio, in sua assenza? Magari non se n’erano ancora resi conto, ma prima o poi ci sarebbero arrivati, era solo una questione di tempo. O no? Piú ci pensava, meno ci capiva. Cercare di conoscere il proprio valore è come pesare qualcosa privi di un’unità di misura. L’ago della bilancia non riesce a fermarsi con uno scatto netto in un punto preciso.

Ad ogni modo, a parte lui, nessuno degli altri quattro ragazzi pareva accorgersi di tutto questo. A Tsukuru sembravano sin ceramente contenti di fare tante cose tutti insieme. Bisognava essere in cinque. Non uno di piú, non uno di meno. Come un pentagono regolare deve avere cinque lati della stessa lunghez za. Era quello che gli comunicavano le loro facce.

E anche Tazaki Tsukuru, ovviamente, era felice e orgoglio so di essere un pezzo indispensabile di quel pentagono. Voleva davvero bene ai suoi amici, e soprattutto adorava la sensazione di formare un corpo solo con loro. Come una giovane pianta as sorbe la linfa dal terreno, trovava in quel gruppo il nutrimento necessario agli anni dell’adolescenza e teneva in serbo dentro di sé le sostanze indispensabili alla sua crescita, come una provvi sta d’energia. In fondo al cuore però nutriva già il timore che prima o poi sarebbe caduto fuori da quella comunità tanto uni ta, o che ne sarebbe stato espulso, e poi lasciato solo. Quell’in quietudine affiorava in lui quando si separava dagli altri, come uno scoglio fatale che emerge al ritirarsi della marea.


Dal suo ritorno a Tokyo, per sei mesi Tsukuru visse sulla soglia della morte. Si era organizzato un piccolo spazio sul bor do di una buia voragine senza fondo, e lí conduceva la sua so litaria esistenza. Un posto pericolosissimo: sarebbe bastato che dormendo cambiasse posizione per rotolare giú, nel nulla. Ma era un rischio che a lui non faceva paura. Cadere sarebbe stato tanto piú semplice!

Attorno a sé vedeva soltanto una landa deserta cosparsa di rocce. Non una goccia d’acqua, non un filo d’erba. Non un co lore, non un raggio di luce. Non c’era il sole, lí, né la luna, né le stelle, né nord, né sud. Una penombra dalla natura sconosciuta si alternava periodicamente a un’oscurità sconfinata. Era l’e strema frontiera che un essere dotato di coscienza poteva per correre. Al tempo stesso però era un luogo ricco di nutrimento. Durante la penombra, degli uccelli dal becco affilato come una lama venivano a scavare senza pietà nella sua carne, ma quan do le tenebre calavano sulla terra e gli uccelli se ne andavano, qualcos’altro colmava in silenzio il vuoto che si era aperto nel suo corpo.

Tsukuru non sapeva di quale sostanza fosse fatto questo qualcos’altro, ma non poteva impedire che colmasse le sue fe rite come uova deposte da uno stormo invisibile. E quando le tenebre cedevano il posto alla penombra, tornavano gli uccelli a beccargli selvaggiamente le carni.

Si sentiva contemporaneamente se stesso e no. Era Tazaki Tsukuru e non lo era. Quando lo strazio diventava insoppor tabile, si staccava dal suo corpo. E da un luogo poco discosto, indolore, osservava il Tazaki Tsukuru che soffriva. Se si con centrava intensamente, riusciva a farlo.

Gli succedeva ancora, a volte, di provare all’improvviso quel la sensazione. Di dissociarsi da se stesso. Di guardare la propria sofferenza come se fosse quella di un altro.


Mentre tornava a casa da solo a piedi, Tsukuru era assorto in pensieri sconclusionati. Aveva la strana sensazione che a un certo punto lo scorrere del tempo si fosse biforcato. Che il pas sato e il presente, la memoria e le emozioni, scorressero a pari velocità su percorsi paralleli. Shiro, Haida, Sara…

Dentro di me, si diceva, ci dev’essere qualcosa di storto, di tortuoso. Aveva ragione Shiro, probabilmente ho una faccia na scosta che nessuno nemmeno immagina. Come la faccia in om bra della luna, che resta sempre al buio. Può darsi che, senza neanche rendermene conto, in un altro luogo, in un altro tempo, io abbia veramente stuprato Shiro e le abbia lacerato il cuore. Che sia stato vile, brutale. Può darsi che il mio lato oscuro ab bia avuto la meglio, e sopraffatto quello in luce…


Era un dato di fatto che, fino ad allora, la vita non aveva ri servato particolari dolori o frustrazioni a Tazaki Tsukuru. Ma se non aveva memoria di brucianti insuccessi, era anche vero, però, che non aveva mai assaporato la gioia di conquistare, al prezzo di grandi sforzi, qualcosa che desiderava dal profondo del cuore. La verità era che il bene piú prezioso che avesse mai avuto erano quei quattro amici a cui si era legato in prima liceo. Ma piú che una cosa voluta, era stata una sorta di benedizione

del cielo che gli era capitata senza cercarla. Finché un giorno - e di nuovo, non per sua volontà - li aveva persi. O gli erano stati portati via.

Sara era una delle poche cose che desiderasse oggi. Non ne aveva ancora la certezza assoluta, ma voleva molto bene a quel la donna di due anni più grande di lui. Era un sentimento che cresceva ogni volta che la vedeva. Per averla era disposto a sa crificare tante cose: un sentimento cosí intenso, cosí bruciante, non lo provava da molto tempo. Eppure - chissà perché - quella a bloccare la corrente. «Mettici tutto il tempo che ti serve. Io ti aspetterò», gli aveva detto lei. Piú facile a dirsi che a farsi. storia non andava nel verso giusto. Era venuto fuori qualcosa La gente non rimaneva ferma, la gente cambiava ogni giorno. Nessuno poteva dire cosa gli riservasse il futuro.


Lui disse qualche parola, Sara scoppiò a ri dere. Una risata allegra che le scoprí i denti. 183

Poi i due vennero inghiottiti dalla folla che riempiva la stra da sul far della sera. Tsukuru, al di qua della vetrata, rimase a lungo a guardare nella direzione in cui erano spariti, con la de bole speranza che Sara si voltasse, che si accorgesse della sua presenza e tornasse indietro per spiegargli come stavano le co se. Ma lei si allontanò senza girarsi. La figura di Sara scompar ve sommersa dalla marea di sconosciuti che andavano ognuno per la propria strada,

Tsukuru si risedette e bevve un sorso di acqua gelata. Tutto ciò che gli rimaneva, ora, era quella silenziosa tristezza, e una fitta che gli perforava il lato sinistro del petto come una lama acumi nata. Aveva come la sensazione che del liquido si diffondesse nel suo petto, una calda emorragia. Sí, doveva essere sangue. Era da tanto tempo che non provava piú quel dolore, dal secondo anno di università. Da quando i suoi amici l’avevano cacciato. Chiuse gli occhi e per un po’ si abbandonò a quella dimensione di dolo re, come quando si galleggia facendo il morto in acqua. Si sforzò di pensare che se soffriva, andava ancora bene. La cosa peggiore è quando non si prova piú nulla.

Suoni diversi confluivano in un unico, acuto rumore che andava a sbattere sul fondo delle sue orecchie. Era un rumore particolare, un rumore che si poteva percepire soltanto nel si lenzio piú profondo. Dall’esterno non si sentiva nulla, era qual cosa che veniva da dentro di lui, che nasceva da dentro il suo corpo, come se arrivasse dal lato interno dei suoi timpani. Ogni persona possiede questo suo suono intimo, particolare, unico. Ma le occasioni di sentirlo sono rarissime.

Quando riaprí gli occhi, gli parve che il mondo avesse cam biato forma. Il tavolino in plastica, la semplice tazza da caffè bianca, il panino lasciato a metà, il vecchio Tag Heuer automa tico che portava al polso sinistro (un ricordo del padre)